Mattia, giovane italiano top manager in Cina:
"Ce l'ho fatta ma è stata durissima" -Foto

Mattia, giovane italiano top manager in Cina: "Ce l'ho fatta ma è stata durissima"

di Bruno Cera
BASSANO - Mattia è una canna di bambù. All’esterno è sottile, i movimenti leggeri, sembra trasportano dal vento; ma dentro è duro come il tek, le sue radici sono forti e in realtà è lui che sfrutta le correnti.



Mattia è flessibile e resistente al tempo stesso ed è per questo che a 29 anni è uno dei manager tricolori più brillanti in Oriente. E col suo cinese stupisce perfino i mandarini.

Mattia è figlio di Remo, uno dei titolari e ad del Gruppo Pedon, legumi e cereali. Base a Molvena, stabilimenti in 4 continenti, 600 dipendenti, fatturato in crescita in doppia cifra, un’eccellenza italiana. È il responsabile del braccio cinese, fabbrica e ufficio con 60 addetti a Dalian, nel nord-est del Paese. Si dirà: "Il figlio del padrone...". E invece è passato per prove da fagioli sotto le ginocchia.

«A 19 anni - comincia a raccontare - mi sono trovato catapultato da un paesino veneto ad Hong Kong, una metropoli di 8 milioni di abitanti dove tutti corrono, dove c’è una sorpresa ad ogni angolo, dove senti pulsare la vita e la voglia di fare. Volevo capire quel mondo, entrare a farne parte, ma c’era lo scoglio della lingua. Allora ho deciso di sospendere gli studi a Bologna e di iscrivermi all’Università di Canton, Commercio internazionale; in cinese. Tutti mi hanno dato del pazzo: lingua a parte, Canton era una città tutt’altro che raccomandabile. Il 1. anno sarebbe stato esclusivamente dedicato all’apprendimento del cinese. Chiesi alla mia famiglia di provare: acconsentirono, sono stati coraggiosi anche loro».

«Mi sono laureato nel 2010 - prosegue Mattia - unico italiano, unico europeo. Quando mi sono recato al consolato del nostro Paese a Canton per chiedere il riconoscimento del titolo sono rimasti di stucco: non era mai accaduto. Il console ha voluto incontrarmi, ha seguito la pratica, ha fatto tradurre la tesi, ha ottenuto un placet notarile. Ora la mia laurea è valida anche in Italia».

Difficoltà?

«Sopravvivere a quel primo anno a Canton è stato durissimo, ma era la mia sfida, era la mia lotta per trovare un posto nel mondo. All’inizio eravamo un manipolo di europei. Si sono ritirati ad uno ad uno. Mi dicevo: ’Il prossimo sono io’. Per 8 mesi abbiamo studiato soltanto i suoni. Per dare un’idea, la nostra ’a’ ha 4 impercettibili varianti, bisogna allenare l’orecchio e la bocca; e quando hai imparato i suoni ancora non sai i significati. Abitavo nell’ostello dell’ateneo, la porta di compensato, l’acqua calda 2 ore al giorno. Non conoscevo nessuno, non mi fidavo di uscire la sera, per vedere qualcuno me ne stavo in portineria, internet era vincolato alla sola Cina. Tante volte mi sono ritrovato sul letto a guardare il soffitto e a domandarmi: ’Ma cosa ci faccio qui?’ L’unica cosolazione erano le telefonate via skype con i miei genitori e i dvd che mi ero portato dall’Italia. Eppure non volevo mollare».

Qual è il segreto per imparare una lingua ostica come il cinese?

«Liberare la mente e non avere paura di sbagliare».

Quali sono le principali differenze tra la mentalità italiana e quella cinese?

«Gli italiani dànno più valore alle relazioni sociali; d’altro canto sono più legati alle tradizioni e meno pronti ai cambiamenti. I cinesi sono 2 miliardi, dal loro punto di vista - a livello umano come nel lavoro - ci si incontra una volta e poi si passa ad altro; per certi aspetti sono cinici, egoisti, badano solo al sodo. Però sono molto più elastici e laboriosi di noi».

Lei sul lavoro è più italiano o più cinese?

«Ho dovuto reinventarmi. I cinesi vengono da un regime paramilitare, sono abituati ad avere un capo, alle gerarchie, alla forma. Il manager ’amico’ come può esistere in Europa a Pechino non ha senso, anzi è controproducente. Io mi sono dato la linea ’lead by example’, guida attraverso l’esempio: sono il primo ad arrivare in ufficio e l’ultimo ad uscire».

Il mercato cinese è ancora un’opportunità?

«È un mercato ancora florido, ma che non può più essere affrontato come 10 anni fa. Bisogna prepararsi, non dare nulla per scontato; cose che noi sono elementari là possono essere complicatissime. Bisogna affidarsi a persone che vivono nel Paese e hanno le conoscenze adeguate. I cinesi stessi sono mutati, si è formata una classe medio-alta, che spende, che guarda all’Europa - e in particolare all’Italia - come a un mito. Di questo occorre tenere conto».

Che consigli darebbe a un giovane che voglia cimentarsi col mercato globale?

«Prima di tutto consiglio una formazione realmente aperta. Voglio dire, tradizionalmente le migliori scuole di finanza sono in Francia, Gran Bretagna e negli Usa; bene, ma il pianeta si è evoluto anche in altre direzioni, nell’Asia stessa e nell’emisfero australe: perchè non fare delle esperienze lì? Poi non bisogna avere paura, non bisogna arrendersi alle prime difficoltà».

Cosa le ha insegnato la Cina e cosa invece ha applicato lei dall’Italia?

«La Cina mi ha insegnato che ogni giorno è un nuovo giorno, che porta con sè una nuova possibilità. Io cerco di far capire ai miei collaboratori che non sono numeri, ma persone, che possiamo formare - ciascuno nel proprio ruolo - una squadra affiatata. Ad esempio, in estate organizziamo una gita aziendale a cui possono partecipare pure i familiari dei dipendenti: una novità assai apprezzata».

E l’amore? C’è anche quello. All’ombra della Grande muraglia Mattia ha incontrato la bella Shiyi, si sposeranno l’anno prossimo. Per una nuova generazione di bambù.
Ultimo aggiornamento: Lunedì 6 Ottobre 2014, 10:14